L’arte s’insegna da sé e lo scultore parla senza sapere a chi. Non sono per niente casuali l’impietosa solitudine e incertezza dello scultore perché la base del lavoro e dei materiali sono le sensazioni, io credo che spesso esse siano impenetrabili. E lo stesso potrebbe dirsi delle sculture di Gianmaria Bonà, che comprendono un arco di valenze che va dall’onirico al fantastico surreale. Certo è che in bronzi quali: Albero della vita, Ti voglio bene e Le mani, del 2010, solo per citarne alcuni dei più espressivi dell’ultimo periodo dove Gianmaria Bonà, non ricorre alle figure memoniche per il gusto di fare della psicologia sperimentale, ma la ricerca di nuove forme che lo attraggono legate dalle assonanze di simboli che inghiottono la ragione, il sentimento e soprattutto l’ironia. Ciò che gli sta a cuore non sono le qualità che li distinguono, ma quelle che eguagliano gli uomini: emblemi dell’inconscio individuale e simboli arcaici, segmenti dell’ abisso dell’inconscio. E’ dunque una scultura che fa coincidenti la verità della “natura” e quella dell’idea, dando alla prima l’assolutezza dell’archétipo di acquisizione quotidiana, che ci sorprende per la prima volta come rivelazione d’arte. In una siffatta arché poetica, Bonà, cerca disperatamente di fermare un presente in cui vuole attuarsi e che continuamente gli sfugge: il presente, l’ha spiegato il grande teorico dell’arte Bergson, non è altro che un futuro che trascorre nel passato ed è sfuggente dell’attuale. E’ assai affascinante, l’ipotesi secondo la quale l’uomo creativo, ossia l’artista (poeta, pittore, scultore o musicista che sia), altro non faccia che tentare di esprimere e definire se stesso come possibile, secondo il concetto dostojevskijano, nelle e mediante, le sue opere. Accettabile o meno, o solo in parte con questa chiave di lettura noi ci troviamo di solito davanti a dei componimenti in cui il basso continuo ha sempre caratteristiche simili in ogni sua parte, mentre gli altri strumenti variano secondo i motivi, i richiami. Si potrebbe quindi e perciò, parlare di una sorta d’immagine e somiglianza echeggianti in susseguirsi di mille sembianze e apparenze in uno spettacolo affascinante, appunto, quanto singolare, mosso e, come si dice oggi, intrigante. Il pensiero fenomenologico di questo nostro artista, proietta la ricerca nell’originario, dove il rapporto dell’uomo è organico con la natura, dove i modi di comunicazione si staccano dal flusso dell’esercizio individuale e si dividono in una congerie di eventi, un so-sie, un labirinto di impronte che interpretano una realtà data con lo stesso farsi dell’umanità. Ammesso questo, e in parte concesso, eccoci allora alle cento versioni che lo scultore Gianmaria Bonà ci offre di se stesso, in dislocazioni, in trasmutazioni in ognuna delle quali egli ci dice qualcosa di sé, in parte apertamente, quasi velatamente secondo i soggetti: dandoci così gli elementi per conoscere quello che è il suo modo interiore e fantastico, i suoi desideri e sogni, risentimenti e aspirazioni, ideali e rimpianti. La lettura va fatta con criterio, direi con mente sana, senza cioè farsi tentare da pruriti psiconalitici e neanche da bollori che, ci porterebbero in mistici bestiari in cui avviene che la pantera a la voce profumata, l’unicorno viene allattato dalla vergine. Lasciamo queste fole ai surrealisti e ai ricamatori: in Bonà le iene non sono ermafrodite. Semplicemente le figure di questo scultore brianzolo sono immaginate e sentite, direi illuminate, idealmente e poeticamente, affinché la loro forma raggiunga, nel modo migliore, quel che esse sono nella realtà pensata dall’artista: e così ecco l’Apotheosis of motherhood, la donna che esprimere con fascino la propria bellezza nel divenire madre, le mani in Gestualità, Abisso d’amore, oppure nell’Albero della fertilità, dove introduce nel contesto scultoreo il groviglio del desiderio e della sensualità, come monumento naturale. Le prime sono le predilette del nostro scultore e molte sono, su di esse, le variazioni sul tema. Altri parleranno di queste opere da un punto di vista stilistico: a me qui preme il far notare come ogni scultura e ogni sua parte sia sentita con forza, passione, virilità. Bonà mi ha raccontato che la prima forte impressione, in fatto di scultura, gli venne nel vedere alcune copie di sculture di Medardo Rosso, ed è evidente che quella scossa ha lasciato una traccia nel suo sentire e fare scultura, con una contaminazione via, via, derivante, forse anche per temperamento, di un fremito secondo il quale nella realtà tutto si muove. Alla luce di un simile processo estetico, in cui non c’è gradualità o, un privilegio di valori normativi, si coglie nella sua giusta dimensione, la modulazione plastica, il piacere di fare, come risposta ai bisogni concreti dell’essere nel mondo. Il piacere di dissolvere e creare nuovi linguaggi, il piacere del diverso, dell’autentico, nel quale le cose remote possono apparire a un tratto vicinissime e le vicine lontane e quasi inafferrabili nella profondità degli abissi della ragione, del sapere attraversando i garbugli della vita. Lo dimostra nella sua opera, il continuo mutare dei riferimenti con una produzione scultorea popolata di spiriti magni, diventando per Gianmaria Bonà un mondo di configurazioni più vasto, senza limiti di tempo, col tempo trasfigurato in ideale che ha per l’artista brianzolo un valore, in quanto, strappato alla pace eterna della storia dell’uomo e alle sue visioni interpretative, cerca di illustrare la storica lotta condotta perspezzare le catene del conformismo, del dogmatismo e dell’intolleranza. Si tratta di un impulso continuo che è nato con l’uomo e ne ha accompagnato e condizionato tutto lo sviluppo morale e sociale. Dalla classica contemplazione che gli ha dato la gioia dell’assoluto e del sublime, Bonà senza rinnegare il passato ha frugato nell’esistente, tutto ciò che può essere vitale e godibile. Un secolo fa di questi artisti che non si riposavano in se stessi, che erano aperti alla dinamica del mondo, si diceva che avevano ingoiato le pillole del diavolo. Riassumendo questa analisi sono convinto che egli sarà ammirato come uno scultore che ha seguito con onore i precetti accademici in modo assolutamente egregio ma come uno che ha sperimentato tutto ciò che è possibile per rendere con il mezzo dell’arte la piena vitalità di un secolo come il nostro, che si è aperto con Picasso e con Boccioni per chiudersi con le suggestive immagini del simbolismo moderno che parla della vita e del futuro, perché l’arte non conosce processi lineari, ma solo e sempre nuove impennate verticali nell’ azzurro del cielo sopra le profondità sconosciute degli abissi, dove solo le tecniche artistiche danno la sensazione di progresso, ma in realtà quello che è possibile è solo il mutamento e i cambiamenti che derivano da opere nuove che ci educano a nuove percezioni, a nuovi sentimenti, a una nuova consapevolezza
10 luglio 2012